Lo scontro degli opposti
Entra nel palazzo una guardia, è al cospetto di Penteo, trascina Dioniso con le mani avvinte. Racconta che la caccia è andata a buon fine e che la belva è stata catturata. Sì proprio quella belva che si è dimostrata docile, quella che ha invitato con il sorriso le guardie a catturarlo. La guardia è confusa, sente lo strano bisogno di chiarire la sua posizione: ha catturato lo straniero non per un suo volere, ma solo per rispetto degli ordini a cui è costretto ad attenersi. D’altra parte le Menadi catturate precedentemente, miracolosamente sono state liberate e sono ormai sui monti a danzare e ad invocare il loro dio. Questa è l’opera dello straniero che appare a Penteo quasi diabolico.
Penteo lo
osserva: ha un bel corpo secondo le donne, ha dei lunghi capelli ricci che
sembrano traboccare di desiderio, ha la pelle bianca forse perché si muove
nell’ombra, ha la bellezza come arma per andare a caccia di Afrodite. In un concitato dialogo fra Penteo e Dioniso, il dio non si
rivela.
Il re
interroga lo straniero, gli chiede da dove
provenga e perché introduca nuovi culti; lo straniero, d’altro canto
impassibile, risponde di provenire dalla Lidia, di essere
stato inviato dal figlio di Zeus e Semele
perché la sua missione è introdurre culti, i quali
non possono essere conosciuti da chi non è iniziato.
Penteo crede
che lo straniero stia tergiversando, ma chi avrà la peggio sarà proprio il
giovane re, che pagherà la sua empietà, il suo oltraggio al dio per averlo
rinchiuso nella stalla. Lo straniero è salvo, è protetto dal dio che “è
presente e vede le sue sofferenze”. Il miscredente, invece, non lo vede, “è qui vicino a
me: tu sei empio, per questo non lo vedi”. Dioniso,
ancora mascherato da straniero, sta per essere imprigionato e rivolgendosi al
suo inquisitore, dice:
“andrò via: ma ciò che non deve accadere non potrò mai
subirlo. Tu invece pagherai questo oltraggio: verrà Dioniso, il dio che per te
non esiste a presentarti il conto. Con l’ingiustizia che fai a me, è lui che
metti in catene”.
Il coro freme,
vuole che il suo dio sia libero in modo da governare i tiasi. Nel frattempo il
palazzo del re si incendia e lo straniero riesce a liberarsi delle catene. La terra
trema, il
fastigio del palazzo ondeggia, si sente nell'interno strepito di rovine, una
fiamma si forma sulla tomba di Semele. Le Baccanti piombano tremanti a terra.
Dioniso esce, pur sempre senza rivelare il suo essere, conforta le Baccanti e
racconta come ha ingannato Penteo. Illuso dal dio, questi ha creduto di legare
in ceppi il suo prigioniero, mentre ha incatenato un toro.
Quando Penteo esce
dal palazzo, sbalordito per la fuga del suo prigioniero, se lo trova davanti,
vuole ucciderlo e crede di sgozzarlo, ma si imbatte nell’immagine del dio,
trafiggendo così solo l’aria trasparente. Intanto un
messaggero, che ha visto sui monti le Baccanti celebrare i misteri, dice di non
aver notato alcun atto sacrilego, ma solo prodigi: donne che porgevano il seno
ai piccoli lupi per allattarli, che percotendo la terra ne facevano sgorgare
acqua o aprivano con le dita, nel terreno, fonti di vino o di latte. Accortesi
di essere spiate da uomini, che volevano stanarle, esse si erano poi,
precipitate sulle bestie della mandria; animate da forza prodigiosa le avevano
dilaniate e si erano lanciate sulle campagne sottostanti, senza che nessuno
potesse resistere al loro furore. Le baccanti sono l’interruzione
della logica perché rompono i confini della
coscienza, visto che sono prese da un’esperienza estatica, che permette loro di
sperimentare quell’uno fratto nelle cose, cioè quella condizione del
diviso-indiviso primordiale del mondo, chiamato da Maria Zambrano il sacro. Come è stato detto “nelle Baccanti, Dioniso è l’incarnazione del
fondamento violento della società greca e di ogni società umana, del sacro
senza il quale gli uomini non possono vivere, e del quale hanno insieme la
necessità di difendersi: il suo doppio vincolo originario del sacro, il
paradosso del dio che è cacciatore e cacciato, divoratore e divorato,
massacratore e massacrato”.
Il dio decide di mettere in atto il suo piano, offrirà a
Penteo la possibilità di vedere con i suoi occhi che cosa fanno realmente le
Baccanti, adescandolo con l’idea che potrebbe “provare piacere nel vedere quel
spettacolo doloroso”. Ma prima il re deve diventare una baccante, eseguendo così il rituale della
vestizione.
DIONISO: “Dioniso, ora tutto è nelle tue mani. Non sei
lontano, lo so. Dobbiamo punirlo! Prima di tutto fallo impazzire, insinua nella
sua mente il morbo sottile della follia: finché ragiona, non vorrà mai vestirsi
da donna, ma se sarà in preda al delirio, indosserà quelle vesti.”
Ormai tutto
è compiuto, i ruoli precedenti sono stati messi in crisi a tal punto che vige
il caos totale. Un re che non è più tale, è la
testimonianza della forza imperturbabile del dio. La città
non è altro che uno scheletro senza carni, svuotato di ogni possibilità di vita
civile e ordinata, ormai il luogo geografico della vita è il monte, il
Citerone. Il coro, costituito dalle Baccanti asiatiche e unito in un’ unica
voce, esulta per la vittoria di Dioniso e per la possibilità che le Baccanti
hanno di celebrare ancora i loro riti notturni. La metafora della caccia, in
cui la cerbiatta (cioè la menade) riesce a sfuggire cercando scampo nella
natura incontaminata e preclusa all’uomo, è ancora centrale.
Viene proposta dal coro, inoltre,
un’idea di “sapienza” che ha fatto molto discutere la critica: essa, infatti,
sembrerebbe essere costituita dalla “vendetta”. Se ciò suona inconsueto alle
nostre orecchie, certo non era così secondo l’etica
degli antichi (almeno prima di Socrate) che
consisteva nel fare del bene agli amici e male ai nemici. Una lettura in questa
chiave, si integra bene nella situazione scenica: le Baccanti possono praticare
i loro riti e Penteo deve essere punito. Infine, il coro chiuderà il suo canto celebrando la
felicità interiore dell’uomo, che non consiste nel benessere dovuto alle
ricchezze materiali, ma nell’esperienza quotidiana del divino.
Penteo è
vestito da baccante ed esce dal palazzo ormai in preda
al delirio tanto da vedere due soli, due città
di Tebe, due rocche. Volge lo sguardo allo straniero, che gli appare come un
toro e gli
chiede di accompagnarlo verso il suo destino. Ha perso tutto, la regalità, il potere
politico, il prestigio, la sua lucidità mentale, il controllo, mancano solo la
dignità e la vita.
Comincia in
modo disteso e tranquillo il viaggio alla volta del Citerone attraverso
paesaggi montani dove sembra regnare una idillica quiete. Intorno tutto è
silenzio, uno stato di profonda quiete, in cui sono immerse anche le menadi e
che sconcerta Pènteo, il quale non si sarebbe aspettato minimamente di
sorprenderle in pacifiche occupazioni.
Penteo
chiede di poter vedere meglio le menadi e Dioniso esaudisce il suo desiderio
con un miracolo: fa curvare la cima di un abete sul quale la vittima potrà
salire e assistere allo spettacolo. Subito lo
Straniero con un grido invita le sue compagne di tiaso a catturare quella
preda:
“E mentre risuonavano queste parole,
tra cielo e terra sfolgorò una luce di fuoco, un bagliore divino. Il cielo
taceva. Tacevano, immobili le foglie nella valle boscosa. Non si udiva un grido
di un animale. Alle orecchie delle donne quella voce era suonata oscura: si
alzarono in piedi, guardandosi intorno perplesse. Il dio, allora, le chiamò di
nuovo.”
Le baccanti
iniziano a lanciare sassi e rami di abete
come se fossero lance, nel frattempo i tirsi si librano in aria per colpire il
misero bersaglio, prigioniero della sua impotenza. Esse, inoltre, sradicano
l’albero e fanno stramazzare al suolo la
vittima, che aveva già consapevolezza di dover morire.
Invano
Penteo cerca di far riconoscere a sua madre Agave la sua vera natura, ma non
c’è nulla da fare: la donna è in preda
alla follia dionisiaca, ha la schiuma alla bocca, ruota le pupille. Afferra il
braccio sinistro e gli strappa la spalla grazie alla forza che il dio le aveva
infuso, la sorella Ino si occupa di dilaniare le carni, mentre Autonoe, l’altra
sorella, e tutta la folla delle baccanti
incalzano sulla vittima.
“Una esibiva il braccio come trofeo,
un’altra un piede ancora stretto nel calzare. Le costole nude erano tutte
scarnificate. Le mani insanguinate giocavano a palla con le carni di Penteo.
Ora giace il suo corpo. Giace qua e là: un pezzo sotto una rupe, un altro nell’intrico
dei rami di una selva. Non è facile andarli a cercarli. La misera testa la
tiene la madre tra le sue mani: l’ha infissa sulla punta di un tirso e la porta
in giro per il Citerone, come fosse il cranio di un leone di montagna”.
Penteo non è
altro che il capro espiatorio, ovvero “l’immagine di colui al quale viene
sacrificato (…) viene fatto a pezzi
perché anche l’altro (Dioniso) è stato fatto a pezzi”. Viene
fatto a pezzi e sbranato, ma il suo capo verrà posto dalla stessa Agave sul
tirso come vero e proprio trofeo di caccia.
La madre Agave ritornata alla reggia è
convinta di avere conficcata sul tirso la testa di un cucciolo di leone e
riconoscerà l’orrore compiuto solo con l’aiuto di suo padre[1], che come
lei è destinato a morire lontano da Tebe, lontano dalla sua reggia. La vendetta
del dio è stata compiuta ed Euripide ha voluto dare una prima e sconvolgente
rappresentazione del potere divino, esprimendolo sul piano del reale. Eppure,
secondo Nietzsche, Euripide sarebbe colpevole di aver ucciso la tragedia, in
quanto ha “portato lo spettatore sulla scena”, ovvero ha
trasformato il mito in una serie di vicende razionalmente concatenate e
comprensibili, iniziando così il processo che avrebbe dato corpo alla commedia
attica, in cui sopravvive la forma
degenerata della tragedia. Egli avrebbe
trasformato il mito tragico in un susseguirsi di vicende razionalmente
concatenate e comprensibili di stampo realistico, soddisfacendo il suo vero
spettatore, Socrate, che incarna l’ottimismo teoretico. Ma Euripide non è
riuscito ad estirpare dal suolo greco il dionisiaco perché il dio è troppo
potente. Sa che l’effetto della tragedia non si poggia mai sulla tensione epica
o sulla stimolante ignoranza, per cui ha predisposto tutto per il pathos e non
per l’azione, in modo tale gli spettatori riescono a partecipare al soffrire e
all’operare dei protagonisti.
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