Il sacrificio

I. Il Risveglio

C’è uno strano odore di morte che incornicia la stanza, a sua volta cornice di un incubo strano. Mi sveglio tra dolori e sento le tempie pulsarmi di fuoco.C’è rumore bianco che mi assale le orecchie, poi sostituito dal silenzio. Non so dove sono, né come sono arrivata qui. Mi sento come una straniera in quest’altro mondo, così diverso da quello che conosco.
I lividi sulle mie bracciate testimoniano la mia resistenza.
La stanza è spoglia,vestita di un flebile velo d’ombra, che ricopre anche me. Fa freddo; un freddo secco che mi divora le ossa. Ho addosso solo una camicia da notte.
È rotta e odora di sangue.
È il mio sangue?
Sono ferita?
Dove?
Come?
Mi tasto il corpo in cerca di ferite. Ho dei graffi sulle braccia, ma la puzza di sangue non viene dal mio corpo.
Intorno a me c’è uno strato viscido che copre il pavimento di legno. C’era davvero statala morte qui dentro.
Gli occhi tentano di inumidirsi di lacrime, invano, e si limitano a bruciare di angoscia.Provo a piangere, ma i singhiozzi muoiono in gola.
Non voglio fare la loro stessa fine.
Devo alzarmi.
Ci provo, ma i piedi urlano il loro, ed il mio, dolore.
Mi limito a strisciare verso la finestra, da cui passa la luce della luna, che mi guarda statuaria e gelida, incurante di me. Fuori dalla finestra vedo un bosco fitto e silenzioso, dove nulla si muove tranne l’aria spinta dal vento stesso.
Mi aggrappo ad un comodino e riesco a mettermi in piedi. Mi muovo a tentoni strisciando contro il muro.
Lo stesso assurdo silenzio mi spinge ad una domanda: sono sola?
Mi muovo nella stanza come un animale in gabbia in preda all’ansia. Cerco delle persone. Se vi era sangue poteva esserci qualcuno, anche se ferito.
Il tempo non passa, sembra congelato, beffandosi di me e lasciandomi in questa penombra,facendomi perdere memoria di esso.
Nessuno c’è oltre a me in questa stanza.
Trovo, in un bivio tra fortuna e sfortuna, la porta.
È anch’essa di legno,come il pavimento e le pareti disadorne. Legno viscido e putrefatto.
La maniglia è screpolata,forse per la ruggine.
Giro la maniglia, Dio (se qui dentro c’è) solo sa con quale forza. La porta è chiusa.
Emetto dei gemiti che il mio cervello aveva forse generato per essere urla.
Sbatto le mani sulla porta, gemendo e, sia quel Dio ringraziato, finalmente piangendo.
Non sento nulla, nemmeno le mie gambe, che alla fine cedono facendomi rovinare a terra.
Continuo, seduta, a battere sulla porta tutte le mie lacrime e le mie angosce. Unico pubblico di questa umiliazione è un assordante silenzio che solo applaude cattivo.
Dopo centinaia di respiri,che sostituivano i secondi nel contare il tempo in questa prigione,sento dei passi.
Passi pesanti, lenti e ritmici. Passi che suonano come quelli di un uomo.
Riesco a biascicare un“aiuto”.
I passi si bloccano davanti alla porta. Sento che poggia la Sua mano sulla porta. Sento i Suoi respiri e mi ci aggrappo come unica sicurezza di non essere sola. D’istinto porto la mia mano nel punto in cui doveva trovarsi la Sua, cercando il Suo calore.
-Aiuto…- sussurro ancora.
Non mi risponde.
Poi un rumore metallico.
Nella porta vi è uno sportello che non avevo notato. Lui lo apre e mi passa del cibo. Al tatto sembra pane e del formaggio. Affianco c’è una bottiglia di plastica, probabilmente piena d’acqua.
Afferro d’istinto la Sua mano. È grande e forte. È callosa ma non anziana, con una peluria che ricopre il polso.
-Aiutami…- supplico.
Lui, però, sfila via la mano e richiude lo sportello. Cerco subito il buco della serratura e trovatolo cerco di sbirciarci dentro.
Vedo solo una sagoma d’ombra. Alta, slanciata ma non esile.
È appoggiata con le mani sulla finestra, posta a destra della porta. La stanza è evidentemente l’ultima di un corridoio. La sagoma ha le braccia tese e ampie; la testa bassa in maniera pensosa e le spalle intensione.
Poi Si gira verso la porta, e la luce della luna illumina il suo occhio sinistro. È un occhio pulito e non complice. È di un verde che ricorda le acque cristalline del mare. Il cervello è in lotta col cuore, e i suoi occhi sono un perfetto campo di battaglia. Si sa che quando cuore e cervello si scontrano, nessuno dei due vince, lasciandoci inerti alla vita, che fredda ci scorre accanto, sopra o sotto, come un flusso incontrollato di pensieri e parole. In quella figura mesta, terribile e stupenda, la battaglia si consuma, senza vincitori né vinti, senza né guerra né pace, perché cuore e mente non possono fare altro che annullarsi, essendo ognuno indispensabile all’altro.
Il cuore ha bisogno della mente, per non volare troppo alto, dove l’aria è rarefatta e può ucciderlo. La mente quindi tiene il cuore ancorato ad un guinzaglio di nervi e sinapsi, e questo, come un aquilone, si affida alla bora dell’amore, allo zefiro della tristezza, al maestrale dell’agonia.
La mente, d’altro canto,necessita del cuore per non appassire sotto una campana più dura del vetro. La mente si chiuderebbe in se stessa, buttando la chiave tanto lontana da non poter più essere recuperata.
Mi sveglio da quei pensieri inadeguatamente sorgenti. Lui indugia qualche altro respiro davanti alla porta, poi svanisce dal campo visivo, lasciandomi da sola insieme al buio, che non è la più confortevole delle compagni e anzi, è di tutti, l’amico più falso, perché dietro alla protezione che ti promette, lui ti giudica attraverso il tuo cervello. Continuo a tendere l’orecchio nella speranza di qualche rumore che indichi il suo ritorno, ma resto delusa.
La mia cella è più fredda e buia adesso, come quando, dopo aver visto il sole, non può più bastarti l’oscurità della notte. Afferro il pane e il formaggio, che erano caduti a terra quando Lui aveva sfilato la mano per sottrarsi alla mia. Li mangio con poca voglia. Lo stomaco è chiuso dall’angoscia.
Ricomincio a piangere.
Stavolta il corpo ed il cervello si sono coordinati bene, perché riesco ad urlare, riesco a piangere fiumi di lacrime, riesco a sentirmi di nuovo un essere umano. E le lacrime scorrono e scorrono. Una via libera sul mio essere, che si contorce sotto i fasci di luna che, come ladri, soli riescono ad intrufolarsi nella finestra, perforando con le loro la medi luce il velo d’ombra che mi aveva avvolto, come un bozzolo. E ora sulla pelle non c’è più spazio per loro, ma solo per i lividi che bastarde mi lasciano. Non si possono vedere questi lividi. Sono troppo sottopelle, ma io li sento, forti, e si svegliano ad ogni ghirigoro che le lacrime tracciano, come se loro fossero  l'artista e il mio viso solo una tela bianca e nuda.
Provo a colpire la finestra, ma il vetro è molto resistente.
Alla fine mi arrendo all’evidenza di una prigionia indissolubile, da cui solo Lui, se vorrà, mi salverà. Per ora, la mente soffia sugli occhi per spegnerli e mi spengo in un lungo sonno senza sogni.

Giuseppe De Santis

 Mi dicono che
"Chi è nato con un talento, e per esplicare un talento, ritrova in esso la sua più bella esistenza".
Johann Wolfgang GoetheLa missione teatrale di Wilhelm Meister, 1777/85

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