Il sacrificio: il Sonno
Quella unica parola mi
stronca. È la prima volta che udivo il suono della Sua voce, memore del
dialogo-monologo avuto con Lui la notte prima. La Sua voce mi rinfresca l’anima
in maniera a me sconosciuta.
Lui apre lo sportello
metallico e punta su di me quegli occhi color smeraldo. Posso vedere il Suo
volto ora. È stranamente bello. I tratti sono marcati, compresi gli zigomi e la
mascella. Ha i capelli corti e neri come la notte. Il volto è incorniciato da
una barba leggermente incolta e le labbra non sono sottili ma nemmeno carnose.
-Chi sei?- chiedo.
-Non ti interessa.-
-Cosa vuoi da me?-
-Tutto.-
Silenzio. Non rispondo. Da
una parte temo ciò che vuole fare, dall’altra non vedo l’ora che agisca.
Lui deve aver percepito la
scissione della mia mente.
-E tu? Cosa vuoi da me?-
-Liberami.- dico con voce
bassa e poco convinta, tentando di ostacolare il mio cervello.
-Io voglio te. Ti ho ammirata
per tanto…tanto tempo. Eri lontana come una stella lo è per una formica. Vederti
ridere, camminare, arrabbiarti, farti la doccia, addirittura. Tutto di te mi
rendeva felice. Ti ho desiderata, come faccio tutt’ora.-
Attraverso lo sportello, mi
sfiora i capelli con una mano. Io resto immobile, scossa dai fremiti di un
corpo traditore. Afferro la Sua mano e la scaccio via, in un misto tra
umiliazione e pentimento.
-Questa è la chiave per
andartene.- dice, alquanto contrariato, porgendomi una grossa chiave di bronzo.
–Io voglio tutto di te, anche la tua anima. Non voglio continuare ad accontentarmi di un corpo freddo come uno
sciacallo di una carogna. Non sono pazzo.- dette queste ultime parole con
strana enfasi, si congeda e richiude lo sportello.
Sono davanti ad una scelta
che agli occhi dei più sarebbe ovvia, ma non lo è (ancora quel Dio incerto sta
giocando con me) ai miei. Rigiro tra le dita la chiave della mia libertà,
pensando a cosa fare.
E i giorni sono scorsi umidi
in questa gabbia di legno rancido e puzzolente.
Le lacrime hanno scavato
solchi sulla pelle, come tatuaggi-ricordo di dolori che hanno inciso sulla
pelle una triste canzone.
L’angolo dove faccio i miei
bisogni puzza. Mi impregna le narici con la mia stessa orina.
Sono appoggiata di spalle
alla porta, e, come al cinema, mi sento spettatrice in terza persona di quello che si può chiamare incubo.
Più di venti volte è sorto il
sole in questa prigionia, ed io inizio, in questo oblio, a perdere memoria
della mia vita precedente. Ho perso l’immagine della mia famiglia, dei miei
amici, di tutto.
Ho perso le certezze che
facevano di me un essere umano, che mi sono cadute dalla mente come stanche
foglie in autunno.
Lui c’è. Mi nutre. Mi sente.
Mi osserva.
Cosa troverò la fuori?
È tutto come ricordo?
Come posso io rifiutare ciò
che Lui ha fatto per me?
Come posso io rifiutare Lui?
Guardo di nuovo la chiave di
bronzo, che ho lasciato sul comodino dal giorno in cui me l’ha consegnata.
Quel pezzo di ferro mi ha
posto davanti ad un bivio cruciale.
Dopo troppi respiri per
esseri contati, prendo la chiave e apro la porta.
Poggio la chiave per terra,
richiudendomi poi dentro.
Mi siedo per terra sotto la
finestra.
Penso.
L’uomo è così debole che tanto gli basta per essere demolito?
L’uomo è così debole che tanto gli basta per essere demolito?
Cosa sono allora le nostre
certezze se non castelli di carte che cadono al primo soffio di vento?
Quale scopo hanno i ricordi
se non sono al sicuro nemmeno nella nostra mente?
È essa così debole che basta
il buio ad offuscarla?
Queste domande strillano ora
tra le mie tempie.
Tempie…Il tempio del corpo
umano. Il centro del sapere universale. Una biblioteca non così sicura,
dopotutto.
Siamo solo spighe di grano
che si muovono seguendo il vento, schiave di un cuore fraudolento, di un corpo
traditore e di una mente perversa.
E noi? Seguendo questa triade
che si alterna nelle nostre vite, ci muoviamo come automi, perché non possiamo
ordinare nemmeno il nostro cervello.
Chissà come è l’aria fuori,
ora?
Al momento c’è una luce
abbagliante, diffusa da un sole caldo e troppo distante. Chissà dove è finito il
tempo che ho perso prigioniera. Chissà se lo ritroverò, ma, si sa, il tempo non
torna mai sui suoi passi.
Noi non possiamo rifare le nostre scelte consapevoli delle conseguenze.
Non possiamo fare altro che
rinascere da ogni pozzo in cui cadiamo (sperando di rinascere), a volte più
forti, ed altre più deboli. Ma l’importante è rinascere, non lasciarsi morire
in questo pendolo che oscilla tra due poli ingiusti.
E in mezzo a tutto questo c’è
l’Amore che addolcisce questa pillola che è la vita.
Io non so come è fatto, ne
cosa prova. Non ho provato il respiro che manca per un bacio, ne il petto che
esplode per un tocco.
Ho sentito però l’anima
ardere per una parola.
La Sua.
La libertà non esiste. Siamo
noi a costruircela. C’è un “libero arbitrio” che non viene da lassù, ma è nato
con l’uomo. È nato senza leggi. Oggi non può e non deve esistere.
Lo vediamo nello scegliere
cosa indossare, cosa mangiare, cosa ascoltare.
Non si può demolire la
libertà che qualcun altro ha costruito, ma si può demolire la propria come si
cancella un disegno fatto con la matita.
Chi la demolisce per
guadagnarsi da vivere.
Chi la demolisce per sentirsi
al sicuro.
Ecco, in un certo senso io
appartengo all’ ultima categoria.
Demolisco la mia perché Lui
mi fa sentire sicura.
Ma il fine ultimo non è la
mia conservazione.
È qualcosa di più, o forse un
po’ di meno, a seconda dei punti di vista.
Il mio fine ultimo è qualcosa
che mi appare come Amore.
Giuseppe de Santis
Mi dicono che
Le paure esistono per essere sopportate. Nessun uomo è coraggioso, se non sa avere paura.
Anthony Clifford Grayling, Il significato delle cose, 2006
Commenti
Posta un commento