Laing e la sua fonte
Sartre cominciò a lavorare alla stesura della sua opera principale, L’ Essere e il Nulla, negli anni più
tribolati della sua vita e del secolo appena trascorso: come riuscì a
completarlo negli intervalli tra una guerra combattuta e persa, un arresto da
parte dei nazisti, un intenso impegno nella lotta partigiana, e addirittura a
farlo pubblicare nel 1943, lo si può spiegare solo nel riconoscere alla
coscienza tutti i super poteri che il filosofo le attribuisce. Ciò che costituisce il fascino senza tempo di
quest’opera non è dovuto tanto al discutibile impianto metafisico che propone
quanto alla meticolosa osservazione dell’esperienza umana nei modi in cui
agisce e patisce, al fermo intuito che ne svela le motivazioni più recondite,
ma soprattutto alla finezza dell’argomentazione.
Come è noto, l’ontologia del filosofo francese si sviluppa tra i due poli
antitetici dell’in-sé, o essere del
fenomeno, e del per-sé, ovvero essere della coscienza: il primo è statico,
inerte, increato, ed è la fonte di ogni determinazione possibile; il secondo è dinamico, indeterminato, ed ha
la funzione di smembrare la massa monolitica dell’in-sé donandole dei confini,
un orizzonte, un senso. Il primo è l’essere propriamente detto, il secondo è la
fonte del Nulla, il non-essere radicale. La scomodità di questa funzione della
coscienza consiste nel fatto che il per-sé trascina la sua funzione ontologica
all’interno della propria esistenza: il paradosso dell’uomo è quello di essere
costretto ad essere libero, a sfuggire ogni appagante determinazione. Da questa
attitudine scaturisce anche quella che Sartre definisce malafede, termine da intendersi più come un dato di fatto che come
un giudizio moralistico, che consiste nell’inganno fondamentale che la coscienza
gioca a sé stessa.
Tra i mille esempi di malafede che il genere umano fornisce a piene mani,
dal politico al filosofo, Sartre ci offre il ritratto di un cameriere (forse
perché si trattava della tipologia umana di cui si intendeva meglio essendo un
cliente fisso dei bistrots parigini): guardandolo in azione, si accorge che questo
ragazzo che gli serve il caffè mostra una particolare cura per il suo ruolo, si
adopera nel muoversi con celerità e destrezza, cerca di mostrarsi efficiente e
preciso, ma per quanto cerchi di entrare nella parte non riesce ad eliminare il
gioco che si cela dietro i suoi atti: questo
perché la sua malafede consiste nel convincersi di essere ciò che non è in
tutto e per tutto, ovvero semplicemente un cameriere. Specularmente, un
omosessuale che non riesce ad accettare la propria inclinazione rifiuta con
tutto sé stesso di essere schiacciato dall’evidenza delle sue sensazioni, ammette
una per una ogni singola colpa senza giungere alla conclusione di essere un
pederasta: la sua malafede è fondata sulla convinzione che i suoi “errori” non
costituiscano per lui un destino. Detto in termini pedestri, il teatro
dell’umanità secondo Sartre è una miscela di commedia dell’arte e di
Pirandello, tutto improvvisazione, sforzo di immedesimazione e maschere: si
vive all’insegna del “così è, se mi pare”.
Come se ciò non bastasse, ad aggravare la difficile situazione dell’uomo
contribuisce l’inquietante incombenza dello spettro dell’Altro. La sensazione
di non essere mai veramente soli è talmente comune che non ha bisogno di essere
dimostrata: il sentimento di vergogna sarebbe impossibile per un Io che non
avverta la presenza dell’Altro, sia esso una persona fisica o Dio. Ma ciò che più
inquieta del prossimo non è tanto la sua “presenza” quanto il suo “sguardo”: infatti,
quando la coscienza viene guardata da un altro soggetto subisce una
trasformazione del suo stato ontologico, da entità libera ed evanescente si tramuta
in un oggetto inchiodato ad una realtà che non ha scelto: così si spiega, ad
esempio, l’imbarazzo del bimbo che viene colto con le mani nella marmellata: nell’impossibilità
di poter abbozzare una qualsiasi difesa, nell’incapacità di non essere ciò che
è in quel momento: un malandrino.
Date queste premesse, la metafora usata da Laing nel definire L’essere e il Nulla come un guanto su
misura per afferrare l’esistenza del folle appare formalmente esatta ma
sostanzialmente infelice nella scelta dell’accessorio: sarebbe più esatto dire
che si tratta di un elegante abito con la gobba fatto su misura per un’anima
deformata. L’ascendente di Sartre su Laing si palesa subito nell’idea di come
ogni uomo senta il bisogno fin dai primi anni di vita di possedere un saldo
senso della propria identità a partire dal quale intessere la tela
dell’esistenza: tale esigenza, definita ridondantemente come un bisogno
ontologico primario, non dispone purtroppo di una consapevolezza necessaria: la
conquista della propria personalità è sempre precaria, e non è affatto raro
avvertire nello scontro con le avversità della vita il venir meno delle proprie
certezze, il montare di quella paura radicale che assale un po’ tutti quando ci
rendiamo conto di non essere più i nocchieri della nave sulla giusta rotta ma
solamente i mozzi di una barchetta in balia delle onde.
Ora, è proprio questa insicurezza ontologica a determinare la struttura del
peculiare vissuto dell’individuo schizoide: ossessionato dal timore di
consegnarsi nella propria nudità allo sguardo minaccioso degli altri, egli
inizia a mettere in campo la paradossale strategia di inventarsi una personalità
falsa da gettare in pasto ad un mondo da tenere a debita distanza, servendosi
di questo falso io come di uno scudo dietro il quale soddisfare la propria inesauribile
sete di libertà. L’elusività tipica degli psicotici trova quindi la sua ragion
d’essere nella partizione dell’ identità e nella molteplicità dei registri cui
attenersi, con tutta la fatica e i rischi di confusione che ne derivano: la
maggior parte delle volte il crollo di quella che potremmo definire la malafede
dello schizofrenico coincide con l’avvento della psicosi vera e propria. Alla
resa dei conti, le condizioni della follia sono create dallo stesso folle: come
afferma Sartre, “la malattia mentale è la via d’uscita che l’organismo libero,
nella sua unità totale, si inventa per poter vivere una situazione invivibile”.
Qualora ciò avvenisse, qualsiasi possibilità per il terapeuta di comprendere
chi parla tra l’io vero e quello falso è irrimediabilmente compromessa: il
marasma che contraddistingue i discorsi dello schizofrenico, con i suoi lampi
di logica in un delirante cielo tenebroso, è fatto solo dai cocci di un
progetto che si è portato nella tomba.
Sauro Frangiflutti
-To be continued-
Mi dicono che:
"L'uomo è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l'avvenire"
"L'uomo è in primo luogo ciò che si slancia verso un avvenire e ciò che ha coscienza di progettarsi verso l'avvenire"
Jean-Paul Sartre
Commenti
Posta un commento