L'arrivo alla "normalità e follia nella famiglia"

A prima vista, L’io diviso non è un’analisi esistenziale molto diversa da quelle che l’hanno preceduta, sia per le virtù che per gli evidenti limiti di interpretazione dei casi critici. In realtà, ciò che rende questo lavoro una pietra miliare del filone è l’esplicitazione di un presupposto che fino allora era stato sottaciuto, ovvero l’intrinseca incompatibilità di un metodo che si propone di “interpretare una situazione umana in termini umani” con una scienza che non potrebbe mai accettarne l’impianto senza rinnegare sé stessa. Chiunque segua l’affascinante resoconto di Laing può leggere in filigrana il bagaglio umano dell’autore, l’acume sorretto dall’esperienza di chi ha passato anni ad ascoltare parole sospese nel vuoto e a fissare sguardi smarriti e disperati: tutto ciò spinge inevitabilmente il lettore  a maturare la convinzione che  lo psichiatra, quando inizia a fare il filosofo, cessa di essere l’uno e l’altro per ritornare ad essere un uomo. E un uomo, quando cerca di comprendere il prossimo si spoglia inevitabilmente di tutte le stimmate di autorità, rinuncia a tutte le categorie e pregiudizi, si offre nella sua nudità all’anima sofferente per tenderle una mano, per condividerne la sofferenza, per essere di conforto. E tutto questo Laing non solo lo dice ma lo argomenta polemicamente, come è nel suo stile.
Mai nessuno, nemmeno Jaspers, Binswanger o Minkowski erano giunti a tanto: semplicemente per aver detto ad alta voce ciò che i suoi illustri predecessori sussurravano, Laing può essere considerato l’erede di questa nobile tradizione  ma anche, anzi proprio per questo, il parricida. Difatti si era spinto un po’ troppo in là: se la psichiatria esistenziale cessa di essere l’ancella della psichiatria ufficiale lo fa solo per prenderne il posto, con la conseguenza che alla comprensione bisogna affiancare un nuovo metodo, escogitare nuovi strumenti, porsi seriamente il problema di una terapia efficace: insomma si impone l’esigenza di trasformarsi in qualcos’altro senza correre il rischio di tradirsi.
Ancora una volta lo spunto venne da Sartre: la critica che questi formulò nei confronti della filosofia occidentale come di un pensiero sostanzialmente centrato sull’Io fu rivolta mutatis mutandis al campo d’indagine della psicologia. “E’ strano – affermerà Laing – come noi continuiamo a formulare delle teorie da un punto di vista ‘ego’- istico. Nella teoria di Freud, ad esempio, c’è l’io (ego), il super-io (super-ego) e l’es (id) ma non c’è il tu”. In realtà, l’esperienza sul campo gli aveva rivelato  come l’interazione  non fosse solo un imprescindibile processo di valorizzazione del lato umano del folle ma anche un catalizzatore del declino mentale dello schizofrenico: non era stato forse il ritorno nel difficile ambiente d’origine a causare la ricaduta di quelle dodici poverette di cui si era occupato all’inizio della sua carriera?
Questa presa di posizione trovò un insperato supporto nelle teorie formulate nello stesso periodo da un eccentrico antropologo inglese con la passione per la psichiatria, Gregory Bateson, secondo il quale le cause della schizofrenia vanno ricercate nel contesto comunicativo che contraddistingue l’ambiente familiare dello schizofrenico. Tutti i casi presi in considerazione dal suo gruppo di ricerca avevano dimostrato come il folle fosse ripetutamente preso di mira da messaggi contraddittori che ne avevano inficiato le capacità di comprensione e di  ragionamento logico: in barba ad Aristotele, da questi studi emerse in maniera incontrovertibile che l’uomo sarebbe un animale razionale più per formazione che per virtù di razza.
Laing ebbe il merito di cogliere fin da subito tutte le sfumature di questa ipotesi ritenendola una teoria che schiudeva enormi possibilità alla comprensione della follia. Tuttavia, intuì subito che essa non poteva pretendere di presentarsi come un’eziologia della malattia mentale così come la intesero i suoi ideatori: del resto, se così fosse non sarebbe possibile accettare neanche in via assurda la possibilità che esista un solo uomo sano di mente sulla faccia della terra. Inoltre, non era condivisibile l’idea che la deriva patologica fosse solo un problema di quantità di paradossi che la vittima si vede piovere sul capo (è il caso di dirlo): ne conseguirebbe che tutti dovremmo perdere il lume della ragione – poniamo per ipotesi – in occasione di ogni campagna elettorale.
L’unico nesso possibile che legava la contraddizione logica del contesto alla schizofrenia degli individui era l’emotività di cui era imbevuta la relazione tra i protagonisti dell’interazione: i gruppi presi in considerazione dal team di Bateson erano quasi sempre delle famiglie apparentemente normali che gravitavano intorno a madri sentimentalmente ambigue e figli radicalmente insicuri. La lacuna della teoria era alla resa dei conti riconducibile a due tipologie di criticità: la prima era quella di non aver definito la natura di questo legame emotivo; la seconda consisteva nel non aver sufficientemente connotato la personalità dei protagonisti. Ora, per Laing era assolutamente chiaro che questi due punti erano gli aspetti di un unico problema, così come era lapalissiano che per risolverli non si poteva non ricorrere all’antropologia di Sartre, l’unica che avesse insistito sufficientemente sul carattere conflittuale delle relazioni umane.
Il connubio tra la teoria del doppio vincolo  e la psichiatria esistenziale è il tema sviluppato da Laing nella sua seconda fatica, battezzata significativamente con il titolo L’io e gli altri e recante un sottotitolo altrettanto eloquente: Psicopatologia dei processi interattivi. Il primo passo obbligato, ovvero la riformulazione delle categorie fenomenologiche dell’Io diviso, passa attraverso la cruna dell’ago di una definizione del concetto di fantasia come di un’esperienza che si distingue per l’impossibilità per colui che vi è immerso di distinguerla dalla realtà. Non contento del paradosso che fa praticamente dell’esperienza della realtà e della fantasia la stessa cosa, Laing ci tiene a specificare come la fantasia non sia una modalità inconscia né possieda una dimensione intrapsichica: “la fantasia … è sempre valida come esperienza e come significato, e se la persona non è dissociata da essa, anche come rapporto umano”.  
Ancora, se Freud aveva individuato nella fantasia il primo stadio attraverso il quale il bambino comincia a strutturare la propria personalità, Laing la ritiene addirittura la modalità principale attraverso la quale l’individuo prende forma relazionandosi con gli altri. Secondo questa prospettiva, la “promessa di uomini” che siamo stati tutti si realizzerebbe grazie alla magnifica illusione che la nostra famiglia, la nostra società, le nostre frequentazioni hanno costruito insieme a noi. C’è un’unica condizione affinché questo processo abbia un esito felice: quella che si basi sull’armonia delle vedute, che si sviluppi quindi nell’ambito di un rapporto complementare. Nel caso non ci fossero queste condizioni, nulla osta ai membri del gruppo di abbandonare la comitiva e andarsi a realizzare da un’altra parte.
Il problema sorge quando il gruppo in liquidazione è una famiglia dove il membro più debole (generalmente il figlio) non può liberarsi facilmente dai suoi vincoli, un po’ perché è in formazione, ma soprattutto perché soffre di quella insicurezza ontologica che abbiamo già incontrato: in questi casi il rapporto da complementare diventa collusivo, in quanto il bambino insicuro di sé è costretto inevitabilmente a fare sua la visione del mondo che il gruppo di appartenenza gli propina: per lui il gregarismo più che un’inclinazione è l’unico modo di vivere possibile.
Per quanto possa sembrare paradossale siamo arrivati ad un punto che sembrerebbe minare alla radice tutto l’impianto esistenzialista di Sartre: l’elusività tipica della coscienza viene soppiantata da un’irresistibile predisposizione a cercare il consenso dell’altro, a diventare una cosa del mondo; a rincarare la dose, Laing sottolinea a più riprese come la malleabilità dell’io insicuro nell’adattarsi al proprio ambiente non sia affatto una predisposizione patologica bensì un deterrente al sopraggiungere della crisi psicotica.
In realtà le cose sono più intricate di come appaiono: la verità dei gruppi è che sono dei cori composti da cantanti smaniosi di cavatine e accomunati soltanto dalla paura che qualcuno incorra in qualche stecca. Per ovviare a tali inconvenienti è necessario che il direttore d’orchestra – la fantasia – diriga con polso fermo e senza favoritismi di sorta la compagnia invitando tutti ad attenersi scrupolosamente alla partitura. Bisogna aggiungere poi che in particolari tipi di gruppo come le famiglie (ma anche come le chiese e i partiti) la secessione da parte di uno dei suoi membri è vissuta quasi sempre come una catastrofe, o quantomeno come una seria minaccia per la propria esistenza: come in tutte le sette, anche in questi casi subentrano dei meccanismi di difesa volti a riportare nei ranghi i ribelli o a screditare i potenziali eretici.
Il ricorso alla comunicazione contraddittoria è l’espediente ideale per raggiungere questi scopi: difatti la sua ambiguità la rende un efficace mezzo di confusione capace di minare le certezze di una coscienza troppo libera agganciandola al carro della fantasia vigente nel gruppo. Laing definisce questo meccanismo un vero e proprio atto di violenza che alcuni individui perpetrano nei confronti degli altri, sia pure in maniera inconsapevole. Ma oltre a chiarirne l’intenzionalità, la scoperta della funzione esistenziale di questi messaggi paradossali si rivelano fondamentali per ricostruire la patogenesi dello schizofrenico, sostituendosi a tal fine allo sterile gioco negativo che l’Altro conduceva nella filosofia di Sartre: lo studio della comunicazione permette allo psichiatra di rendersi conto della patologia del gruppo cristallizzatasi nel ruolo ricoperto dal malato.
 Tirando le fila del discorso, la prospettiva ambientale di Laing non trascura affatto il vissuto dell’individuo ma lo esalta, senza per questo avere la pretesa di coglierne l’intima verità. Se il comportamento incoerente è l’espressione di un’esperienza violata, e se l’esperienza è “sempre in relazione a qualcuno o a qualcosa d’altro da sé”, la logica conclusione sarà che quest’esistenza è stata confusa, repressa, privata dei suoi valori, impossibilitata ad essere libera. Questo sillogismo può essere considerato l’assunto fondamentale dell’antipsichiatria, l’artefice della sua fortuna e la causa della sua catastrofe.
Il risvolto pratico di questa concezione è testimoniato dalle storie di undici donne raccolte da Laing e Esterson nel libro Normalità e follia nella famiglia. Questo lavoro non è altro che una ricostruzione certosina di mosaici familiari di una banalità quasi mortale avente lo scopo di inquadrare la sintomatologia schizofrenica delle giovani pazienti nelle dinamiche familiari. Il risultato fu conforme alle aspettative dei suoi autori: le voci di dentro delle degenti si rivelavano immancabilmente come il riverbero di quelle di fuori accompagnate da una serie di ammiccamenti, insinuazioni e contraddizioni degne del miglior teatro dell’assurdo: se fossero frutto dell’inventiva di un drammaturgo, Beckett si rivelerebbe quasi un dilettante sopravvalutato.
Normalità e follia nella famiglia fu un libro che ebbe uno strano destino. Nato come un tentativo non troppo convinto di applicazione delle teorie di Laing, esso ebbe un tale successo da rendere il suo autore “più famoso di Freud e Jung”. Da un punto di vista strettamente scientifico non c’era e non c’è alcun’apparente motivo che giustificasse il clamore che provocò al tempo della sua uscita: non vi è tratteggiata nessuna teoria psicologica, non viene adottato nessun criterio scientifico per la misurazione dei dati, lo stesso campione scelto per l’analisi è frutto più di un caso che di una scelta ponderata. Probabilmente, ciò che fece discutere e insorgere gli ambienti accademici ( e non solo quelli medici) era la pretesa degli autori di impartire una piccola lezioncina su dove si dovessero volgere i sapienti sguardi: “Gli psichiatri che non sono disposti a conoscere personalmente ciò che accade al di fuori dei loro ambulatori, sono soltanto ignari della realtà; i sociologi che pensano di scoprirla studiando le cartelle mediche stanno soltanto cercando di trasformare il vile stagno della clinica nell’oro fino della statistica”.
Ma in realtà questo lavoro ha un vero, grande ed incontestabile merito, l’efficacia dell’esposizione: la maestria con cui vengono tratteggiati i ritratti delle famiglie protagoniste e i ruoli dei suoi componenti, la semplicità attraverso la quale sono rivelati i meccanismi relazionali tramite i dialoghi, l’abilità nel mostrare il gioco degli ammiccamenti e l’intrecciarsi delle reciproche aspettative sono tutti ingredienti che riescono a catturare l’attenzione del lettore più sprovveduto spingendolo alla riflessione critica di tematiche che fino a quel momento erano state appannaggio di pochi specialisti. Ed è possibile che sia stato soprattutto questo ad infastidire i soloni scettici della psichiatria.
Ma il consenso riscosso presso il grande pubblico da questo libro non dipese tanto da ciò che vi è detto quanto da quello che vi è solo suggerito e che intercettava magnificamente le istanze contestatarie che scuotevano la società inglese degli anni sessanta, animata da giovani ansiosi di spazzare via i rimasugli dell’epoca vittoriana con tutte le sue ipocrisie e di liberarsi delle inutili prediche dei padri con tutto il loro retaggio di valori obsoleti. Nacque in questo periodo lo strano fenomeno di trovare nel “Laing – pensiero” le risposte alle numerose domande che assillavano i profeti progressivi: il libertario vi scorgeva la dimostrazione che la famiglia fosse un’istituzione repressiva, il rivoluzionario vi trovava la rivelazione che la malattia mentale fosse una truffa per controllare individui scomodi per la società, persino la nipote della suffragetta vi vedeva la conferma che le donne erano le vittime della società fallocratica. Restia ad aggiungersi allo sport ermeneutico ma comunque conquistata dal potenziale rivoluzionario delle ricerche, l’ intellighenzia scorgeva nella riluttanza degli autori a studiare la società e le sue magagne un vulnus epistemologico grave ma superabile: “(…)perché il lavoro di Laing ed Esterson possegga ‘un significato storico’… occorre che con esso si riesca a vincere la prassi borghese, e che le sue splendide articolazioni siano riempite da concreti, unilaterali, contenuti di lotta”.
La verità è che Laing - per quanto simpatizzasse coi moventi ideologici che gli erano attribuiti - era restio a collocare il proprio lavoro in una dimensione politica, ritenendolo modestamente un sasso gettato per smuovere le acque stagnanti dell’euristica psichiatrica: come disse a Letizia Jervis Comba, pur considerando il concetto di “malattia mentale” un giudizio di valore più che un fatto scientifico, lo riteneva alla resa dei conti “una ipotesi legittima”, restando intesi però che questa ipotesi bisognava dimostrarla e non continuare ad  agire  etsi insania daretur come si era sempre fatto fino ad allora. Un’altra cosa però bisogna specificarla: Laing ribadì più volte di non aver  mai voluto criticare l’istituzione familiare in quanto tale, ritenendola anzi il pilastro della società allo stesso modo dei reazionari più incalliti: del resto, da un uomo che si sposò due volte e che ebbe una nutrita figliolanza non si poteva pretendere che la pensasse in maniera diversa.

Sauro Frangiflutti
-To be continued-
Mi dicono che:
"Il bello e il brutto, il letterale e il metaforico, il sano e il folle, il comico e il serio (...)perfino l'amore e l'odio, sono tutti temi che oggi la scienza evita. Ma tra pochi anni, quando la spaccatura fra i problemi della mente e i problemi della natura cesserà di essere un fattore determinante di ciò su cui è impossibile riflettere, essi diventeranno accessibili al pensiero formale." 
Gregory Bateson in Dove gli angeli esitano

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